top of page
  • Instagram
  • Facebook

I Signori del Basket: Latrell Sprewell

  • Immagine del redattore: La Pagina Del Cestista
    La Pagina Del Cestista
  • 1 mar 2022
  • Tempo di lettura: 19 min

“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria

col suo marchio speciale di speciale disperazione.”


Ho sempre pensato che iniziare una storia-qualunque essa sia- con una frase

in grado di riassumerne il senso ultimo sia forse il modo più adatto per far

immergere chiunque legga o ascolti-fin da subito- all’interno della narrazione.

E quale frase migliore di quella sopra citata-tratta dalla splendida canzone

intitolata “Smisurata Preghiera” del compianto Fabrizio De Andrè- potrebbe

assumersi l’ingrato compito di dare un ritratto-se pur sommario - di quello che

io ritengo essere uno dei personaggi più accattivanti che abbiano mai messo

piede su un parquet NBA.

Latrell Sprewell. Un uomo strano, che si è sempre fidato sempre e solo dei

suoi istinti primordiali e di poco altro; in costante fuga dalle convenzioni di un

mondo da cui non si è mai sentito compreso.

E dire che quella fuga dalla normalità Latrell aveva iniziato a correrla presto.

Precisamente dall’8 Settembre 1970, giorno in cui mamma Pamela lo aveva

messo al mondo in un ospedale di Milwaukee, Wisconsin.

Crescere a Milwaukee non era una passeggiata di salute per nessuno a quei

tempi, ma crescere a Flint- città in cui la famiglia del nostro si sarebbe

trasferita poco dopo la sua nascita- si sarebbe rivelata una impresa ancora

più ardua.

A Flint vigeva una sola regola: Non ci sono regole. Tutto era lecito per le

strade. La droga, a quei tempi, infestava tutta la città. Chi non ne faceva uso

magari la spacciava o aveva certamente loschi affari con qualche trafficante.

Le gang battagliavano a suon di proiettili e coltelli e non era raro che qualche

innocente rimanesse coinvolto in quella tempesta di violenza incontrollata e

incontrollabile. La gente a Flint rischiava la vita ogni giorno, spesso in

maniera del tutto gratuita. E crescere in un posto come quello finisce

inevitabilmente per segnarti.

Latrell era un ragazzino schivo e taciturno, a cui piaceva stare per conto

proprio. Non diverso da altri ragazzi della sua età apparentemente. Eppure,


sotto quella superficie di impalpabilità nascondeva una coltre di sofferenza

fitta come nebbia.

Come se non bastasse tutta la violenza a cui era costretto ad assistere

giornalmente in strada, quando tornava tra le quattro mura domestiche, la

situazione, già tragica, non faceva altro che peggiorare. Il padre di Spree,

Latoska-uno spacciatore di crack sempre in cerca di guadagni illeciti e con il

vizio di alzare un po’ troppo il gomito-picchiava lui e la madre selvaggiamente

e senza remissione di peccato.

Se le ferite inferte sul corpo finivano comunque per rimarginarsi prima o poi,

quelle incise sulla superficie della sua anima avrebbero continuato a

sanguinare anche a distanza di tanti anni dalla loro primissima incisione.

Immerso in quel contesto cittadino del tutto disfunzionale e con quel tipo di

background famigliare alle spalle, Latrell avrebbe trascorso la propria infanzia

e successiva adolescenza così, come veniva. Tenendosi sì lontano dalle

gang, ma anche da tutti gli altri suoi coetanei. Per lo più trascorreva le

giornate da solo, a fantasticare sul futuro. Che immaginava all’interno di una

officina di sua proprietà ad aggiustare auto e ad istallare impianti stereo.

Della scuola non gli era mai interessato più di tanto, anzi...

Gli insegnanti, ad esempio, non gli piacevano. Troppo supponenti per i suoi

gusti. E tutte quelle regole di comportamento poi. Gli sembrava di essere

nell’esercito. Lui, invece, era tutt’altro che un soldatino. Non si vedeva in

giacca e cravatta a svolgere qualche lavoro d’ufficio e a seguire rigidi schemi

di comportamento. Gli piaceva vivere e farlo a suo modo, con le sue di

regole.

Quello era uno dei motivi per cui adorava giocare nei playground del suo

quartiere. Nessuna regola. Solo un canestro, il cemento del campo da gioco,

lui e la palla. A fare da contorno a tutto questo c’erano ovviamente anche gli

altri ragazzi. Ma questo sembrava non importargli. Del resto comunicava con

loro solo lo stretto necessario. Il suo, era un linguaggio non verbale. A 14

anni o poco più aveva già capito di parlare una lingua diversa dagli altri. E

ogni volta che cercava di dar fiato alla bocca veniva puntualmente frainteso.

Per questo motivo, aveva iniziato a far parlare sempre e solo le mani anziché

la bocca (questa tenetela a mente, ci servirà dopo). Un’ abitudine che

avrebbe finito poi per trasportare anche al di fuori del campo.

Giocare a pallacanestro però gli piaceva. Portare quel pallone da una parte

all’altra del campo in palleggio riusciva stranamente a tranquillizzarlo e

contemporaneamente anche a galvanizzarlo. Giocando, aveva la possibilità


di far uscir fuori delle emozioni latenti, che difficilmente avrebbe avuto la

possibilità di espellere diversamente.

Il rumore della retina-rigorosamente in metallo- aveva un che di catartico per

quel ragazzo che non riusciva proprio a trovare il proprio posto nel mondo.

Eppure, durante quelle partite interminabili- in cui difficilmente si teneva il

punteggio o si fischiavano falli- Latrell riusciva a trovare una propria

collocazione, sentendosi-per qualche ora-un ragazzo come tutti gli altri.

Dal punto di vista prettamente cestistico non spiccava in quanto a talento.

Ma in quanto a doti atletiche decisamente sì.

Era sempre l’ultimo dei ragazzi in campo a tirar fuori la lingua esanime.

E poi beh, era un cavallo purosangue in grado di andare in coast to coast alla

velocità della luce, per poi inchiodare bimani terrificanti al ferro,

accompagnate rigorosamente da urli beduini dai decibel talmente alti da

essere udibili per tutta Flint e dintorni.

E se in attacco era uno spettacolo continuo, in difesa, per certi versi, era

ancora meglio. Ci dava come nessuno e marcava qualunque cosa si

muovesse. Sembrava volesse sbranare chiunque si trovasse di fronte. Come

se, in quei momenti, al posto del volto degli avversari, vedesse invece quello

di Latoska.

Spree non dava a vederlo, ma-per quanto fosse oramai cresciuto e non fosse

più in pericolo fisicamente-quell’uomo, continuava a far emergere spettri

sinistri all’interno della sua psiche e per quanto non volesse ammetterlo-

nemmeno a sè stesso- questo lo terrorizzava. Come se di colpo finisse

puntualmente per tornare ad essere quel bambino indifeso che assisteva

inerme a Papà che, rientrato in casa fatto o ubriaco, trovava sempre una

ragione valida per mettergli le mani addosso.

E dare tutto su quel campo, magari immaginando di schiacciare in faccia

all’uomo che lo aveva fatto così tanto soffrire, riusciva a farlo stare di colpo

meglio. A lenire per qualche istante quelle ferite che non avevano mai

smesso di ricordargli da dove veniva e persino verso dove non sarebbe mai

potuto arrivare. Ovvero sia fuori da Flint, fuori da una vita fatta di stenti e

violenza.

E Questo lo spingeva a dare sempre di più, a migliorarsi, a sacrificare ogni

fibra del suo corpo pur di vincere. Non per farlo contro gli altri 5 ragazzi in

campo. Quella sarebbe stata una vittoria relativa. Ma per farlo contro sé


stesso e quella vocina interiore che gli sussurrava all’orecchio che sarebbe

finito per diventare come suo padre un giorno.

La voce di questo ragazzo con la dinamite ai piedi e dall’attitudine al sacrificio

spiccata, nel frattempo, aveva finito per diffondersi tra i vari Playground della

città. Spree stava diventando una sorta di celebrità urbana della

pallacanestro.

A questo punto potreste intervenire voi e pormi il seguente interrogativo: “Uno

così forte avrà pure giocato da qualche parte in quel periodo, no?

Spiacente del dovervi dare una delusione a riguardo…

Aveva provato a giocare per la propria High School a Flint, ma il coach della

squadra-pur notando quelle straordinarie doti atletiche- lo aveva reputato

troppo gracile e troppo indisciplinato per essere inserito all’interno di una

squadra.

Non che Spree ne avesse fatto una tragedia. Non aveva pensato neanche

per un momento che quella di giocare a basket nella vita potesse essere una

prospettiva percorribile. Il suo piano A era comunque quello di aprire una

officina o di lavorare in una concessionaria un giorno.

Continuò a giocare a basket ovviamente, ma prima del suo penultimo anno di

liceo non aveva ancora mai messo piede in un vero parquet per una partita

ufficiale con vere regole e un vero arbitro (Dato che le uniche strisce bianche

e nere che aveva visto in vita sua erano state quelle che aveva visto

indossare a papà quando andava a trovarlo durante i suoi frequenti soggiorni

in gatta buia).

Fino a quando la madre non decise di tornare a Milwaukee; tutto pur di

allontanare il proprio figlio da quel posto del tutto privo di orizzonti…

Durante quel periodo, mentre Spree si trovava nei corridoi della nuova

scuola, si imbatté in tale Coach Gordon, allenatore della squadra di Basket

della scuola. Il quale, aveva notato quel ragazzo smilzo, con lo sguardo perso

nel vuoto, che si aggirava per i corridoi. Subito dopo averlo visto aveva

avvertito uno strano prurito- passatemi il termine-come uno di quei pruriti che

vogliono avvertirti di qualcosa. In quel momento Coach Gordon non sapeva,

ma in un certo senso è come se lo sapesse, di star parlando con un futuro

gran giocatore.

Aveva già deciso di reclutarlo per la propria squadra ancor prima di avergli

visto giocare anche un solo minuto. Prima lo testa ovviamente; in uno contro

uno a metà campo con il centro titolare della squadra, ma è solo formalità. Il

fatto che Spree bullizzi sul campo quel giocatore dal nome non meglio


conosciuto, era solo la dimostrazione fattuale che quel prurito avvertito alle

spalle dal Coach, qualche ora prima, era più che fondato.

Gordon aveva capito di trovarsi di fronte ad un blocco di pregiatissimo

marmo, a cui era solo necessario dare una forma precisa e armoniosa.

Spree, dal canto suo, che in genere ascoltava sempre e solo sé stesso,

aveva deciso di affidarsi totalmente alle sapienti mani dello scultore che per

primo aveva creduto in quel blocco di marmo maledetto. Come del resto

aveva fatto a suo tempo anche Michelangelo, con il marmo dal quale poi

sarebbe venuto fuori il suo celeberrimo David.

Latrell avrebbe ripagato presto la fiducia del proprio padre putativo.

Migliorando di giorno in giorno, di partita in partita, in ogni aspetto del gioco.

Mise su un jumper dalla media che metteva dentro con precisione chirurgica

e imparò anche a servire i propri compagni con passaggi- talvolta

spettacolari- a ridosso del ferro.

Il tutto senza ovviamente snaturarsi troppo. Perché Spree restava sempre e

comunque un anarchico. E il coach, per questo motivo, spesso gli dava carta

bianca in attacco. Ma al contempo sapeva sempre quando tirare le briglie di

quel cavallo imbizzarrito che faticava a seguire i dettami tattici. Gli fece capire

inoltre che la squadra veniva prima dei singoli. E per uno cresciuto

letteralmente da solo, dubitando di chiunque, non era certo una nozione

semplice da apprendere.

E per la prima volta in vita sua Spree sentiva quasi di appartenere a

qualcosa. Il campo era diventato il suo rifugio segreto dal resto del mondo

con cui aveva sempre faticato a dialogare con efficacia.

Ogni schiacciata realizzata, ogni corsa interminabile verso il ferro, ogni difesa

instancabile. Tutto per vendicare una vita di ingiustizie patite e di torti ricevuti.

Una vendetta servita fredda nei confronti di chiunque lo avesse mai trattato

con sufficienza o superiorità.

Eppure, tutto sarebbe potuto finire lì. Con quei due meravigliosi anni trascorsi

ai servigi di coach Gordon. Perché il nostro a scuola andava come andava e

di soldi per andare al college non ce n’erano. Se non fosse che coach

Gordon, ancora lui, che aveva assunto la causa Spree come propria,

contattando un suo vecchio amico, che era il vice-allenatore della squadra di

basket di un piccolo community college del Missouri, riuscì a fargli avere una

borsa di studio.

Spree avrebbe trascorso qualche anno in quel posto dimenticato da Dio,

rivestendo il ruolo di adulto tra i bambini e venendo nominato, al suo ultimo


anno lì, miglior giocatore della propria conference. Nel frattempo, le squadre

di college di Division 1 prendevano nota. E il suo nome iniziava a comparire

in parecchi taccuini dei reclutatori. Fino a che non arrivò la chiamata

insperata del prestigioso college di Alabama. Nel quale Spree rimase per altri

due anni, continuando a sfoggiare il proprio meraviglioso modo di intendere il

giochino ideato da Neismith, riuscendo anche a far alzare parecchi

sopraccigli, persino ai piani alti, se capite che intendo.

Rimase ad Alabama fino all’estate del 1992. Quando ricevette una chiamata,

indovinate da chi. Esatto, ancora coach Gordon. Il quale, gli comunicò che un

certo Coach Nelson, coach dei Golden State Warrior dell’NBA, aveva chiesto

informazioni proprio su di lui, dicendosi interessato a sceglierlo per il draft di

quell’anno se si fosse dichiarato eleggibile. Spree quasi non ci credette.

Nonostante tutta la strada che aveva fatto, tendeva ancora ad escludere che

quella del giocatore professionista sarebbe potuta essere una professione

credibile da percorrere. Era già sorpreso di essere arrivato fino all’ultimo anno

di college, figuriamoci andare a giocare in NBA.

Eppure non stava sognando. Latrell Sprewell, il figlio di quella Flint balzata

spesso agli onori della cronaca nera, sarebbe arrivato a giocare nella lega di

Basket più competitiva del mondo. Era una vera e propria manna dal cielo,

anche e soprattutto dal punto di vista economico. Anche perché Spree, nel

frattempo, aveva messo incinta una ragazza, divenendo padre di una

bambina.

Quello del Draft 1992 era un draft pieno di talento, soprattutto nel Front Court.

Le prime tre scelte furono infatti rispettivamente Shaquille O’Neal di LSU,

Alonzo Mourning di Georgetown e l’odiatissimo Christian Laettner dei Blue

Devils di Duke.

Furono 23 le squadre ad ignorare Latrell bellamente, prima che coach

Nelson, tenendo fede alla propria promessa, arrivi a sceglierlo con la numero

24 assoluta. Quella che si sarebbe rivelata un’autentica Steal of The Draft.

Ma d’altronde, come direbbe il buon Federico Buffa-il quale cito sempre

volentieri- “Se tutto fosse stato chiaro dall’inizio, un quadro in vita sua Van

Gogh lo avrebbe venduto”.

Latrell Sprewell e Golden State. O per meglio dire Oakland. Perché l’arena

dei Golden State Warriors sorgeva proprio proprio a pochi passi da Oakland.

Uno dei posti degli Stati Uniti più pericolosi in assoluto.

Strano che il fato avesse deciso di concedere a Spree l’opportunità di una

vita in un posto così simile a quella Flint che aveva lasciato per andare in

cerca di un orizzonte migliore. Come se per uno strano scherzo sadico


avesse voluto ricordargli-se ancora ce ne fosse stato bisogno- che avrebbe

anche potuto andarsene dal ghetto, ma il ghetto avrebbe sempre e

comunque continuato a far parte di lui.


Coach Nelson stravedeva per lui. Al suo anno da rookie arrivò persino a fargli

giocare 35 minuti di media. La stagione degli Warriors, in termini di squadra,

non fu eccelsa, anzi. Ma quella di Spree fu del tutto sorprendente. Prima di

quell’annata, nessuno dei tifosi o degli addetti ai lavori aveva la minima idea

di chi fosse. A fine stagione, tutta la tifoseria, o quasi, aveva finito per

sfoggiare la sua maglia numero 15 sugli spalti. E tutti gli addetti ai lavori, dal

canto loro, per chiedersi chi fosse quel fenomeno che dava l’idea di voler

rompere il ferro ad ogni azione.

Nonostante tutto però la stagione di Spree era passata tristemente

sottotraccia. Perché se nasci outsider, in fondo, lo resterai per tutta la vita,

non importa cosa tu faccia per cambiare quella condizione. E d’altronde tutta

la carriera di Spree potrebbe riassumersi con il termine “Sottovalutato”.

La seconda stagione fu quella della consacrazione definitiva. I minuti giocati a

partita stavolta sarebbero diventati 43. Aspettate, ve lo ridico. Quarantatre. La

media punti a partita più alta di tutta l’NBA. Latrell era l’Highlander definitivo.

Non usciva praticamente mai da quel campo. Quasi come se volesse

passare meno tempo possibile seduto in panchina, a rimuginare sui propri

fantasmi, con i quali riusciva a scendere a patti solamente quando

scorrazzava sul parquet con la palla in mano.

Ma non erano tanto i minuti giocati-che pure facevano impressione- a lasciare

del tutto interdetto chiunque avesse modo di vedere una sua partita. Quanto

piuttosto l’intensità paurosa con cui conduceva ogni singola azione. Era in

grado di andare da una parte all’altra del campo con lo stesso grado di

accellerrazione, sia che si trattasse del primo o del quarantottesimo minuto di

gioco.

Dal punto di vista dell’attitudine e dal punto di vista delle doti fisiche non

aveva eguali. Neanche in una lega di supereroi come l’NBA.

A febbraio sarebbe stato persino convocato per il suo primo All Star Game.

In neanche un anno e mezzo di carriera professionistica il tornado forza 5

Latrell si era già preso tutto. E come si sente spesso dire in casi come

questo, The Sky was The Limit.

A fine stagione avrebbe toccato i 21 punti di media, portando gli Warriors-che

nel frattempo avevano preso al Draft un certo Chris Webber- ai Playoffs.


Prima di uscire al primo turno e di tornarsene a casa con non pochi

rammarichi.

Ma certamente quella era la strada giusta da percorrere. O almeno questo

pensavano gli Warriors. Perché le successive stagioni sarebbero state piene

di tanti bassi e pochi alti. E gli unici alti erano tutti targati Latrell Sprewell. Che

nel frattempo era diventato, aldilà di ogni ragionevole dubbio, la miglior

shouting guard dell’NBA. Era quel tipo di giocatore in grado di farti saltare

dalla sedia. Ma al contempo anche uno di quelli dotati di una essenzialità che

non può essere insegnata da nessuno. O ce l’hai o ce l’hai. Beh, Latrell ce

l’aveva e la sfoggiava fieramente ad ogni allacciata di scarpe.

Ma come detto, le successive stagioni trascorse nella Baia non sarebbero

state un successo dal punto di vista dei risultati di squadra. Latrell era rimasto

solo sull’isola. Tim Hardaway, Chris Mullin e persino Chris Webber se n’erano

andati. Chi per un motivo e chi per un altro. E la squadra, beh, era diventata a

quel punto tutt’altro che irresistibile. E Latrell aveva iniziato sempre di più a

giocare da solo. I coast to coast erano aumentati sempre di più e

conseguentemente anche i deragliamenti al ferro, in seguito all’eccessiva

stanchezza causata da tutti quei tentativi di corsa sfrenata e disperata al

ferro.

A fare le spese degli scarsi risultati della squadra era stato Don Nelson. Il

primo uomo in NBA che aveva dato fiducia a quel ragazzo di Flint che aveva

trasformato da autentico sconosciuto ad autentico campione. Spree prese

ovviamente male la notizia. Ma continuò comunque a dare il massimo, per sé

e per i propri compagni. I sostituti di Don Nelson, prima Bob Leiner e poi Rick

Adelman, vennero entrambi sollevati dall’incarico dopo anni di vacche magre.

Siamo all’avvento della stagione NBA 1997-1998 e i Golden State Warrior

avevano-come spesso gli era capitato da qualche anno- un nuovo coach nel

quale riporre fiducia per i successi futuri. Tale PJ Carlesimo. Un coach noto

tra i giocatori per essere particolarmente duro durante gli allenamenti e per

non essere particolarmente affezionato-diciamo così- alle prime donne che

vogliono portare avanti un one man show. Per Carlesimo il Basket era uno

sport di squadra e come tale anche il giocatore più talentuoso doveva

plasmare il proprio modo di giocare in funzione del sistema che lui avrebbe

deciso di adottare e non il contrario.

Il rapporto tra lui e Spree-come potreste aver intuito dalla premessa qui

sopra- non sarebbe partito in modo idilliaco, tutt’altro. Carlesimo era

esattamente il tipo di persona che Spree mal tollerava. Era bianco, gesuita,

vestiva sempre giacca e cravatta e credeva di saperne sempre più degli altri.


E poi aveva intenzione di ingabbiarlo in dettami tattici troppo rigidi e di farlo

muovere sul campo come fosse una pedina degli scacchi. E per Spree- che

in vita sua di regole ne aveva sempre seguite poche- sarebbe iniziato presto

una sorta di conto alla rovescia prima di esplodere fragorosamente.

La stagione era partita in modo disastroso. Con 13 sconfitte su 14 partite

giocate. Il clima nello spogliatoio era diventato a dir poco tossico. E ogni

allenamento aveva iniziato a prendere le sembianze di un vero e proprio

addestramento dei Marins.

Carlesimo non lesinava parole di critica per nessuno, a maggior ragione per

la sua stella. Verso la quale si rivolgeva sempre con un tono supponente e

scontroso. Spree per un po’ aveva cercato di inghiottire il rospo, per il bene

suo e della squadra. Ma il primo Dicembre del 1997 il patto di non

aggressione tra il nativo di Flint e il Gesuita della Pensylvania sarebbe

ufficialmente andato in frantumi.

Quel giorno, sembrava un allenamento come tanti altri durante quel

disastroso inizio di stagione. Forte tensione, nervi tesi e Carlesimo che non

faceva altro che dettare ogni movimento, come fosse un marionettista alle

prese con i suoi pupazzi. In particolare, il coach sembrava avere gli occhi

puntati proprio su Spree. Il quale, secondo Carlesimo, non si stava

impegnando a sufficienza. Dopo una serie di sgridate che avrebbero fatto

impallidire persino il sergente maggiore Hartman di Full Metal Jacket,

accadde l’imponderabile. Carlesimo aveva appena finito di sgridare Spree per

un passaggio sbagliato, sintomo, a sua detta, dello scarso impegno che il suo

numero 15 stava mettendo durante quell’allenamento. A quel punto Spree

rispose con un proverbiale “Non oggi Coach”. Come a dire “Oggi lasciami

stare o finisce male”. Carlesimo- che non si faceva mettere i piedi in testa da

nessuno- a quel punto non solo continuò la sua esemplare ramanzina, ma

andò persino a muso duro con Latrell.

Il quale- come spesso gli capiterà negli anni a seguire-in quel momento

avrebbe spento la spina. Mise le mani al collo di Carlesimo e per circa 10

secondi, quello che era iniziato come un semplice allenamento di

pallacanestro, si tramutò in uno di quei regolamenti di conti a cui Spree aveva

assistito tante volte dalle sue parti.

I due vennero separati e Spree venne cacciato dall’allenamento. Per poi

rimettere piede in palestra, neanche 20 minuti dopo, con l’intenzione di

concludere quello che aveva iniziato. Si recò nuovamente da Carlesimo,

tirandogli un gancio destro al volto, per poi andarsene e gridare- affinchè tutti

potessero sentirlo- “Trade Me”. “Cedetemi”. Spree voleva andar via, voleva


ricominciare da un’altra parte. Magari con un coach diverso, che avesse

fiducia in lui e che scendesse a patti con il suo personale modo di intendere

la vita e la pallacanestro. Ma lo aveva esternato nel modo più sbagliato

possibile.

I momenti successivi a quel gesto di inaudita violenza furono probabilmente i

peggiori della sua vita. Non faceva altro che guardarsi le mani e chiedersi

come avesse fatto a perdere la testa in quel modo. Eppure in fin dei conti la

risposta la conosceva già. Al contrario di quello che potesse sembrare in

apparenza, Carlesimo c’entrava poco con quella reazione. Certamente non lo

sopportava e certamente quei commenti rivolti ai suoi riguardi gli avevano

fatto andare i nervi a fior di pelle. Ma c’era dell’altro. Qualcosa di non detto e

che mai prima di allora aveva avuto l’opportunità di venir fuori. Una rabbia

inconsulta, esplosa all’improvviso- con un pretesto- ma tenuta dentro l’anima

per troppo tempo. Quella rabbia che Spree provava nei confronti di

quell’unica persona che non poteva battere su un campo di pallacanestro,

nonostante cercasse sempre di immaginarselo lì, al posto di ogni singolo

avversario che fronteggiava.

Ma quella volta non c’era la pallacanestro a proteggerlo dai suoi fantasmi.

C’erano solamente lui, il suo dissenso e Carlesimo- il cui volto si era

tramutato per qualche istante forse in quello di Latoska- che in quel momento

stava cercando di uccidere per spazzare via la tristezza dal suo cuore.

Ed è buffo pensare come alla fine, per cercare di cancellare l’immagine di

quell’uomo che gli aveva rovinato l’infanzia, aveva finito per diventare

esattamente come lui. Quella vocina in testa-che lo tormentava da anni- alla

fine, aveva avuto quello che desiderava.

La reazione dell’NBA a quell’episodio fu durissima. Squalifica di un anno e

rescissione d’ufficio del contratto.

Spree non era mai stato così solo in vita sua. E stavolta non per sua scelta.

Ma perché il mondo dal quale cercava di fuggire da tutta la vita lo aveva

rigettato come uno scarto di cui far tranquillamente a meno.

Come se non bastasse, rischiava di finire in prigione per aggressione.

E se la legge di Murphy avesse avuto bisogno di una prova della sua

esistenza, quello che sconvolse Latrell durante quei mesi ne fu la prova

fattuale. Tutto quello che poteva andare storto andò esattamente così.

Tranne che per una cosa. Latrell in prigione non ci finì. Venne tirato fuori dai

guai niente meno che dall’avvocato di OJ Simpson.


Impersonandosi Neo di Matrix, Latrell aveva appena schivato un discreto

proiettile diretto dritto al cuore. E come spesso accade in casi come questo,

eventi del genere finiscono per forza di cosa per darti una nuova prospettiva.

In quel preciso istante Latrell tornò a credere di poter tornare a giocare a

pallacanestro. Non aveva mai desiderato tanto come in quel momento di

tornare a sentire il brivido della competizione e l’adrenalina che si prova a

correre sul campo.

La squalifica sarebbe terminata da lì a breve. Ma chi mai avrebbe potuto

essere tanto pazzo da concedergli un contratto garantito. Per informazioni a

riguardo citofonare a nome New York Knicks. Che furono gli unici a dargli la

proverbiale seconda chance che piace tanto agli americani. Del resto, furono

gli unici a dargliela ma anche gli unici a potergliela dare. Perché? Perché

New York e i suoi tifosi erano come Spree. In quegli anni, sia la franchigia

che la gente della grande mela, avevano una gran voglia di riscatto sociale,

sportivo, economico e soprattutto non avevano niente da perdere. La New

York di quegli anni era sporca, cattiva, con una criminalità crescente.

Sembrava la Gotham rappresentata da Tim Burton nel film Batman-il ritorno.

Se pur priva di un protettore che avesse avuto la forza e il coraggio di

mettersi sulle spalle tutte le sofferenze dei newyorkesi.

Fu il redivivo Latrell Sprewell ad accettare quel mantello che nessun’altro

aveva avuto il coraggio di cucirsi addosso. Spree era il cavaliere oscuro di cui

New York aveva bisogno e di cui non avrebbe più potuto fare a meno. I tifosi

lo adoravano. Perché banalmente era come loro. Pieno di guai fuori dal

campo e all’interno della sua testa, ma quando entrava all’interno del parquet

dava il massimo per onorare quella maglia. Che nel frattempo aveva

cambiato il proprio numero. Spree aveva scelto per ripartire la numero 8,

come il giorno in cui era venuto al mondo, come il giorno in cui aveva iniziato

a correre la sua interminabile corsa all’indietro.

Il segnale si accendeva ogni notte chiamandolo all’azione e Spree rispondeva

spendendo ogni singola goccia di sudore che aveva in corpo. Perché se dalla

maglia, strizzandola a fine partita, non fosse uscita la quantità adeguata di

sudore, quella sarebbe stata di certo una partita sprecata.

Ma che Spree era tornato dalla squalifica? Uno Spree più maturo, meno

accentratore, in grado di stare dentro ad un sistema. Era sempre il mostro di

atletismo di un tempo, ma dava l’impressione di controllarsi molto di più

rispetto a prima.

Non sapremo mai cosa sia passato esattamente per la sua mente durante

l’arco di quell’anno passato ai box. Ma una cosa è certa, si era reso conto


persino lui che quella era la sua ultima chance, non solo nel Basket, ma nella

vita. L’ultima possibilità per riscattare tutto quello che aveva vissuto da

bambino e per far pace con sé stesso.

I Knicks erano una buona squadra, ma non con tantissime belleità. In quella

squadra c’erano Allan Houston, un Patrick Ewing in declino fisico e coach

Van Gundy a fare da direttore d’orchestra. Probabilmente in situazioni

normali quel gruppo non avrebbe fatto neanche i playoffs. Ma quelle della

stagione 98/99 erano tutt’altro che normali. La stagione era partita il 5

febbraio a causa del lockout della NBA. E anzichè giocare 82 partite se ne

sarebbero svolte solamente 50.

Dopo un inizio difficile, i Knicks riuscirono ad agguantare una insperata testa

di serie ad Est. E quello che sarebbe avvenuto successivamente credo sia

una delle cose più inspiegabili dell’intera storia NBA.

I Knicks sconfissero tutti quelli che andavano sconfitti nella loro Conference,

divenendone i campioni. Si sarebbero giocati la finale NBA contro le torri

gemelle di San Antonio, Duncan e Robinson. I primi a riuscirci partendo da

ottava testa di serie.

Durante quei playoffs, Spree era spesso entrato dalla panchina. Van Gundy

voleva che entrasse in campo mettendo a ferro e fuoco il piano partita degli

avversari con la sua imprevedibilità. A Latrell piaceva quel tipo di ruolo. Se lo

sentiva cucito addosso. E poi, per quanto sulla carta entrasse dalla panchina,

nella realtà dei fatti giocava più minuti di alcuni titolari e finiva tutte le partite o

quasi in campo.

Aveva giocato bene in quasi tutte le serie, tranne qualche partita sottotono in

quella contro gli Indiana Pacers. Era l’anima della squadra. Il pubblico del

Madison Square Garden andava in sincrono con il suo respiro. Si esaltava

quando lui si esaltava, smetteva di farlo quando lui si rattristava.

Dal canto suo, il figlio di Pamela nutriva una sana riconoscenza per quella

gente che lo aveva accolto come fosse parte di loro da sempre. Per una delle

prime volte in vita sua aveva smesso di sentirsi solo a battagliare con il

mondo. Sentiva di appartenere alla Grande Mela e di doverla proteggere da

chiunque avesse cercato di recarle danno.

Però quella contro gli Spurs sarebbe stata una serie impervia. Come una di

quelle salite dalla pendenza irregolare, che si fa fatica ad attraversare persino

in auto.

Ma Spree avrebbe indossato come sempre il suo mantello e si sarebbe fatto

carico dei sogni e delle speranze dei Newyorkesi. D’altronde era lì per quello.


Lo avrebbe fatto giocando 44 minuti di media a partita e concludendo la serie

come leader per punti segnati.

Ma alla fine avrebbe perso. Con un sonoro 4-1. Se pur lottando fino all’ultima

partita, fino all’ultimo tiro. Che era stato lui stesso a prendere e suo malgrado

a sbagliare.

A fine partita venne intervistato. Era certamente il più deluso di tutti, ma non

si lasciò andare alle lacrime. Anche in quel momento stava cercando di

tenere i propri sentimenti all’interno del suo cuore, dove poteva controllarli.

Così che gli altri non potessero vederli.

Quella straordinaria gara 5 giocata contro gli Spurs rappresenta la sintesi

perfetta di tutta la vita di Spree. Una vita trascorsa a correre fino allo

sfinimento. In fuga da qualcosa o qualcuno di indefinito. Forse da papà, forse

da Flint o ancora da sé stesso.

Una fuga onirica che finiva sempre per arrestarsi dentro i confini di una realtà

crudele, che alla fine avrebbe sempre finito per raggiungerlo e per

rinchiuderlo in quel soffitto di cristallo impossibile da infrangere a mani nude.

Dal quale avrebbe sempre visto gli altri andare avanti e sé stesso, invece,

correre e correre ancora, senza tuttavia mai muoversi di un passo, come

avrebbe fatto un criceto sulla ruota della propria gabbia.

I demoni del suo passato non avrebbero mai smesso di tormentarlo e di

bisbigliargli all’orecchio. Suppongo che alla fine abbia finito per accettarlo

persino lui. Anche perché, da lì a pochi anni, avrebbe appeso le scarpe al

chiodo, nonostante avesse avuto ancora tanto da dire. Dopo New York era

andato a Minnesota, da Garnett, dove aveva anche raggiunto le finali di

conference. Dopo pochi anni, però, al momento delle negoziazioni per il

nuovo contratto, non aveva reputato consone le cifre offerte da Minnesota e

dalle altre franchigie che lo avrebbero voluto con loro.

Ma a me piace pensare che i soldi c’entrassero poco con la sua scelta di non

giocare più in NBA. Credo che Spree non avesse più voglia di correre fino

allo sfinimento su quel campo. In fondo alla fune aveva finito per scendere a

patti con quella sua anima spaccata in due. E per accettare l’uomo che era.

Quell’uomo che aveva cercato di strangolare anni prima. Perché in fondo,

tutte le battaglie che aveva condotto sul parquet dei campi NBA o sul

cemento del playground non le aveva condotte contro Latoska e neanche

contro la violenza del suo passato, bensì contro quel ragazzino impaurito che

oggi come allora non riusciva a trovare il proprio posto nel mondo.


Eppure, quando penso a Spree, ripenso comunque a quella gara 5 contro gli

Spurs. A quei 35 punti che gridavano voglia di vendicare una vita di

ingiustizie. E al Pubblico di New York, che a fine partita continuava

comunque ad invocare il suo nome, nonostante avesse fallito nella sua

missione di proteggerli. E ripenso a lui, che dopo la campana finale chiese

scusa, come avrebbe fatto un bambino davanti a mamma e papà dopo aver

commesso una marachella. E che al momento di tornare negli spogliatoi

venne salutato dalla sua gente con un fragoroso saluto plebiscitario.

Perché il traguardo finale avrà certamente la sua importanza nella vita ma, in

fondo, il percorso impiegato per arrivarci conta infinitamente di più.


Lunga vita a Latrell Sprewell e a chi, come lui, viaggia in direzione ostinata e

contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione.


Testo: Giovanni Fede

Comentários


  • Instagram
  • Facebook

© 2020 La Pagina del Cestista | Testata registrata presso il Tribunale di Sassari n°8397/2019  | Direttore Responsabile Federica Senes

bottom of page